Il
Belvedere è lì, sulle pendici della rupe. San Leucio è adagiata ai suoi
piedi, come una docile amante pronta a ferire l’orizzonte, avvolgendolo
nei suoi fumi.
Questo
non è solo un sito monumentale, una realtà geografica, storica, sociale e
industriale, è anche una condizione dello spirito, un luogo mentale, la
memoria di un percorso utopico mai interrotto, una strategia dell’arte.
Non
si può scrivere un testo critico sulla produzione artistica di Battista
Marello legata al Belvedere di San Leucio e prescindere dal luogo stesso,
topos per eccellenza non solo per un itinerario borbonico o per la via della
seta, ma anche per un viaggio nell’arte contemporanea, in quanto il
Palazzo è stato testimone eccellente di una vita artistica fatta di grandi
mostre, di intense progettualità, di riconoscimenti internazionali, di
vicende anche clamorose. E non si può parlare del Belvedere di San Leucio
come contenitore d’arte contemporanea e non legarlo subito all’immagine
di un artista e sacerdote, ma soprattutto di uno spirito ricco di grande
umanità e temperamento, che ha spronato e vissuto il connubio tra arte
contemporanea e Palazzo negli ultimi vent’anni. E intorno a lui in
leuciani, i casertani, fino a coinvolgere Napoli, Roma, tutta l’Italia,
aprendo anche le porte a scenari internazionali. San Leucio e il suo
Belvedere sono oggi non solo un patrimonio monumentale, ma anche un luogo di
elezione dell’arte contemporanea del panorama mondiale.
In
un Palazzo così ricco di valenze e di significati si va a inserire la
mostra che Battista Marello dedica al suo rapporto con il Belvedere e la
Fabbrica. Rapporto antico, dunque, che si sviluppa secondo le tappe di un
percorso. E parte dalle “carte segrete”, dal ritratto premuroso e
diligente che l’artista fa a don Oreste, il vecchio parroco di San Leucio,
ripreso sul letto di morte. Parte forse proprio da lì la storia di Marello
artista e al tempo stesso genius loci
della comunità leuciana. E’ un ritratto appassionato, ma subito diventano
altrettanto appassionate le rappresentazioni che l’artista fa dei
particolari, dei dettagli che animano l’architettura del luogo. E non
mancano le prime vedute d’assieme, dove il Belvedere appare a volte in
tutta la sua imponenza, a volte è invece sospeso come in un sogno, pronto a
dileguarsi.
San
Leucio diviene “la città che sale”, con tutta la sua energia, la sua
capacità di rialzarsi dopo i tanti ostacoli incontrati lungo un cammino che
non è mai stato dorato. Sale la città, con la forza delle idee, con la
volontà degli uomini, i leuciani, così prontamente legati alla loro
origine, così fieri della propria storia. Il richiamo futurista non è solo
nel titolo, ma soprattutto in quel dinamismo che caratterizza questa opera
come le tante altre che Marello ha prodotto, diventando quasi una costante,
una cifra pittorica imprescindibile. C’è dinamismo nelle nuvole che si
disegnano all’orizzonte, c’è il movimento stesso della vita nei fumi
che si avviluppano su se stessi, creando labirinti, spirali, vortici.
Un
angelo nunziante è un Icaro senza memoria. Il volo è quello di
un’annunciazione laica: c’è posto per l’arte. E tanti sono stati i
passaggi al Belvedere, paesaggi e passaggi d’artista. A testimoniare i
“transiti” restano le opere, le fotografie, i segni di un passaggio
avvenuto. Il Belvedere negli anni scorsi diventò un crocevia dell’arte,
una sorta di stazione virtuale, luogo di partenze e di arrivi, ma
soprattutto di incontri. Il Palazzo diventò ospitale, accogliendo i
protagonisti di tante e diversificate culture. Fu Palazzo delle culture,
prima che iniziasse il restauro. Ora, a restauro quasi ultimato, appare
ancor più bello e soprattutto più funzionale. E attende di nuovo la vita
che verrà.
Dalla
vita alla vite. Sulla collina di San Leucio sono stati ritrovati i resti di
quella che era la magnifica “Vigna del Ventaglio”, la scenografica
viticoltura voluta dai Borbone. Dieci qualità di uva venivano prodotte e la
disposizione dei filari era proprio quella di un ventaglio, al cui apice si
riunivano i dieci cippi, le pietre conficcate a semicerchio nel terreno, che
indicavano l’inizio di ogni singolo vigneto. Battista Marello parte da
questa immagine e la amplifica, la rinnova, la rende immanente nella nuova
realtà odierna.
San
Leucio non è solo il Belvedere, La Fabbrica, i quartieri, la collina, ma è
anche la Piazza della Seta, che si vorrebbe animata oggi come un tempo da
artisti girovaghi, per rafforzare quell’idea di nomadismo, di stazione, di
transito. Oggi come allora vive “Mangiafuoco”, esemplare unico di teatro
di strada. E l’artista è al tempo stesso un cantastorie. Nella grande
tela dell’87, Marello “assume atteggiamenti di più candido
fantasticante, quasi a raccontar favole” (M. Venturoli). La verità è che
dentro il fiato del mangiafuoco c’è tutta la potenza di San Leucio, c’è
il fumo delle ciminiere, c’è il grande anelito di libertà.
Di
sala in sala si perviene alla “settima stanza”, quella conclusiva. Il
settimo cielo. Una coperta di seta leuciana incombe dal soffitto. E’ vero,
allora. Si è nel sacellum, nella cella del tempio. E’ un luogo mentale
esaltato nel ricordo di chi ha vissuto e vive in simbiosi con il Belvedere.
E non può dimenticare quanto sia sacro il Palazzo. E’ la settima stanza,
quella della pienezza. Sette i giorni della creazione, ma sette sono anche i
vizi capitali. Sette è il numero magico che completa il viaggio. Dentro il
monumento, ma soprattutto dentro se stessi. Ecco, la settima stanza è
quella più nascosta, quella che ognuno porta dentro di sé. E si ha paura a
mostrarla.
Enzo
Battarra