SIGNUM CRUCIS La Croce di Giovanni Paolo II LIGNUM CRUCIS di Battista Marello IL SEGNO DELLA CROCE foto di Bruno Cristillo
CRIPTA DELLA CATTEDRALE DI CASERTA dal 5 al 19 aprile 2009 Inaugurazione domenica delle Palme 5 aprile ore 11:00
Un segno per sempre di Enzo Battarra Luogo misterioso e suggestivo è la cripta. Nascosto sotto l’abside, l’ipogeo è uno spazio segreto, nascosto alla vista. Al tempo stesso, la discesa in questo ambiente sacro provoca un forzato isolamento dal contesto architettonico e dai riti religiosi. Nella cripta si custodisce la memoria del passato e si tramanda il ricordo dei grandi predecessori. La Cattedrale della Caserta nel piano ha la sua cripta: un unico grande ambiente austero. Qui l’artista-sacerdote Battista Marello ha collocato l’imponente e drammatica “Discesa agl’Inferi”, una scultura di bronzo e marmi, alta più di tre metri, realizzata nel 2002. Nella descensio ad inferos del Cristo c’è già l’anástasis, la Risurrezione. Così Marello la interpreta, imprimendo una luminosa e dirompente forza espressiva, tra i marmi lacerati del sepolcro, esplosi, e la figura del Cristo che risorge con la sua travolgente carica, la sua energia, il suo messaggio di salvezza portato giù, fin nei territori della morte. In occasione di questo evento, nella cripta della Cattedrale è ospitato anche il “Signum Crucis”, l’opera che riproduce il segno della Croce tracciato dal Pontefice Giovanni Paolo II sulla tavoletta di creta e contrassegnato di suo pugno con il sigillo papale. È la memoria di un gesto austero e solenne, è un testamento semantico. Era il 1992, nei giorni del 23 e del 24 maggio il Papa fu in visita a Caserta. Battista Marello ebbe l’intuito di chiedere al Pontefice di lasciare un segno a perenne memoria dell’incontro casertano. Giovanni Paolo II, per nulla intimorito da quella richiesta, tracciò il simbolo più caro alla comunità cristiana. Nacque così il “Signum Crucis”. Il tutto avvenne in pochi minuti, ma fu uno di quegli avvenimenti in cui è il tempo a subire una sospensione e le immagini restano per sempre impresse tra i ricordi più emozionanti. Ora in esposizione ci sono anche le due immagini fotografiche del Pontefice che segna la creta. Si rafforza così il ricordo di un Papa artefice, capace di imprimere per sempre la memoria del suo passaggio, il flashback di una visita che ha inciso nelle coscienze come nella materia d’arte. La Cattedrale di Caserta custodisce il bronzo realizzato in esemplare unico a partire da quella tavoletta di creta. Il “Signum Crucis” è incastonato sul frontespizio dell’altare, rivolto al pubblico, a ricordare un evento e un gesto straordinari. Oggi che la tavoletta di creta originale è la terracotta esposta nella cripta si crea un saldo rapporto verticale tra l’altare e l’ipogeo, caratterizzati da un unico segno di croce. La civitas casertana ha la coscienza di essere custode di un segno eccezionale tracciato dalla mano del Papa, un segno essenziale ma di grande forza espressiva, un segno che trasmette fede e impegno sociale. Al “Signum Crucis” si affianca in questa esposizione il “Lignum Crucis”, una scultura in bronzo del 2006, alta quasi due metri e mezzo, realizzata da Battista Marello con elegante capacità di sintesi. La figura del Cristo è di un’estrema leggerezza, ma tutto il dolore è nella colatura di rosso che proviene dal costato, un segno che taglia perpendicolarmente la scultura. La parola si trasforma in segno nella più sacra delle rappresentazioni. “Ecce lignum crucis, in quo salus mundi pependit. Venite adoremus!”, verrebbe da dire! L’evento espositivo si completa con il ciclo fotografico in bianco e nero di Bruno Cristillo sempre sul tema della Croce. In queste fotografie il simbolo della cristianità viene ripreso nelle sue accezioni più dirompenti di martirio così come nella sua essenzialità grafica. Il “segno della Croce” si rinnova sugli altari come nelle sacrestie, per le strade e sui muri, a volte si moltiplica all’interno della stessa immagine, tra ombre e materia. Sono foto scattate per la maggior parte nel nostro territorio. Alcune sono crocifissioni di alto pregio artistico, altre sono elaborazioni poco più che artigianali, altre volte il simbolo è riportato nella sua drammatica essenzialità. Immagini sono rapite da chiese storiche, altri scatti sono strappati alla quotidianità domestica o urbana. Queste fotografie di Bruno Cristillo, al di là del soggetto rappresentato, vanno valutate per la loro qualità intrinseca, per la felice scelta delle inquadrature e delle luci, e sono contrassegnate sempre da un rigoroso equilibrio compositivo che non cede mai all’esigenza documentativa. Il fotografo leuciano ha nel tempo maturato sempre più una propria cifra espressiva, un proprio linguaggio, proseguendo nel suo lavoro di ricerca. A questo abbina un’elevata capacità tecnica, immediatamente percepibile per la nitidezza e la qualità professionale delle immagini. Il tema della Croce diviene così un modo per indagare negli anfratti del nostro animo. E i siti fotografati, pur essendo spesso perfettamente riconoscibili, finiscono per perdere la loro identità, divenendo dei non-luoghi, territori della memoria e dell’intimo, preziosi frammenti del nostro essere. La Croce ci accompagna nel nostro viaggio e passo dopo passo, in una sorta di Via Crucis, scopriamo la nostra identità. Lignum Crucis, Lignum Veritatis di Luciano Caprile L’arte della spiritualità e la spiritualità dell’arte. Il gesto sorge dall’inconscio come un seme desideroso di germogli. Per Battista Marello questo appare come un comportamento naturale, spontaneo poiché le sue sculture celebrano l’immediatezza di una fioritura: scavano la materia e nel contempo sollecitano la leggerezza del desiderio tradotto in immagine evocativa, in un sogno ancora da sognare. La manifestazione lascia ampi spazi alle intenzioni di chi osserva e riesce a recepire tutto ciò che è utile al nutrimento non solo dello sguardo ma soprattutto dell’anima. Il Cristo sofferente può ritrovarsi nel ritaglio metallico ovvero nel Lignum crucis di una stele idealmente conficcata nella terra e nella sensibilità della gente a cui porta frutti di riflessione e di redenzione. Lo stesso Cristo crocifisso emerge nella sua essenzialità descrittiva dal ripetuto graffio della puntasecca: il sangue che zampilla dal costato si diffonde come rivelazione, come riscatto, come linfa vitale. Il Lignum crucis ritorna perennemente come memento e come approccio creativo nel senso che tutto ciò che l’autore esprime proviene da quella scarnificazione interiore capace di estrarre e di manifestare il seme, talora aspro, della verità. In tal senso la traccia del suo primo maestro, Pericle Fazzini, riaffiora di tanto in tanto come una confortante memoria. Tale approccio consente all’artista di affrontare i grandi racconti sui pannelli bronzei delle chiese o i guizzi improvvisi concessi a una forma decisamente tridimensionale con la delicata e sensibile proprietà di un’eterna annunciazione: i volti dei papi, dei vescovi e dei comprimari scaturiscono dalla materia con naturale evidenza o con pregnante, pungente sottolineatura. Il tutto avviene nel nome dell’armonia compositiva e dell’ordine spirituale che guida ogni gesto. In queste manifestazioni più libere e più genuinamente esplosive è proprio lo spirito a tradursi in forma ovvero in una sostanza narrativa che consegna il proprio divenire di allusioni e di speranze a chi la osserva con intendimento partecipe. Con Battista Marello l’idea della classicità si sposa con l’idea, in apparenza dissonante, dell’urgenza dichiarativa riuscendo a trovare sempre un punto d’incontro felicemente conclusivo. Quel fuoco che arde e scava il Lignum crucis e che talora accompagna in maniera più trasparente certi suoi lavori ( dalla Colonna di fuoco al Papa porta fuoco ) plasma infatti la verità e ce la consegna talora con irruenza, talora con dolcezza, in un’immagine da conservare nel cuore come una trafittura di ammonizione o come una carezza consolatoria. Il suo Lignum crucis diventa pertanto sempre e comunque un Lignum veritatis ovvero uno specchio in cui ritrovare il nostro tempo attraverso le forme e i contenuti che Battista Marello promuove con perseveranza. È sufficiente un segno ( magari il segno di croce di Giovanni Paolo II inciso nella creta da tradursi in bronzo ) perché l’arte indichi un cammino di luce. di Gennaro Matino Un tratto intenso, tormentato, deciso dà vita all’immagine di un Cristo-croce stampato su un legno, che come un pungolo perfora la terra e smuove le sue viscere per farne scaturire l’uomo nuovo. Ai sui piedi, quasi si perde tra le zolle, il teschio di Adamo. Icona dell’uomo che, credendo di poter vivere senza Dio, si confonde con la materia, quel teschio, schiacciato da una vita senza senso, rimarrebbe tale, memoria di una esistenza prigioniera della morte, se Dio, che ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito, non avesse avuto compassione della sua creatura, della sua finitudine, della sua sofferenza. Dio non conosce croci, anche se il dolore arriva al cielo come grido disperato. Ma quale compassione potrebbe liberare chi soffre se non si è solidali nel dolore? Amare è condividere, non lasciare solo chi si ama. Se per amare bisogna incontrarsi, o forse scontrarsi, e prendere sulle proprie spalle i pesi dell’altro, allora Dio potrebbe offrire la sua divinità e l’uomo la sua umanità. Un atto d’amore, il più grande della storia, si consuma sul Colle del Cranio per rispondere al dolore dell’uomo. Se la terra è schiava dell’odio che genera morte, solo il cielo può aprirla alla vita e su quel colle Dio è posto dinanzi a una scelta fatale: morire d’amore o rassegnarsi a un amore che muore nelle speranze tradite degli uomini. Solo su quel legno, così come lo rappresenta Marello, il Cristo non ha più interlocutori, perché un Dio croce delude ogni speranza. I due ladroni, il centurione, Maria, la madre, Maria di Madgala, Giovanni, l’apostolo che Egli amava, sono esclusi dal dramma. Solo un unico tratteggio, l’acqua e il sangue che fuoriescono dal costato trafitto per irrorare di nuova vita la terra, sporca il fondo bianco, nitido, a ricordare che nulla, nessun elemento può fare da cornice a quell’istante in cui la storia si ferma e l’eterno irrompe nel tempo. Solo un teschio ai piedi del patibolo, dal quale sembra salire la protesta dell’umanità: “Non t’importa che moriamo?”. Perché il dolore. Questa l’eterna domanda che attanaglia la terra, che insidia anche l’uomo di fede, quando si dimentica che Dio è Dio, è vita creante increata, diversità assoluta, totalmente altro dalla miseria umana. Perché la morte. Questa la domanda che non trova risposta se non si comprende che in ogni croce del mondo c’è impressa, come nell’opera di Marello, il Cristo sfigurato, crocifisso per la salvezza degli uomini. In quel legno, che entra nella storia del primo uomo e dell’uomo che verrà, il corpo martoriato del Cristo lascia impresso, come in un calco, il suo amore e diviene compagnia, conforto, condivisione nella sofferenza che sempre lascia il suo segno. Ma sarebbe poca cosa se in quel legno, pungolo di dolore, che come un pugnale trafigge la terra, non vi fosse incisa la speranza. Dio è Amore e se muore l’amore è Dio che muore lentamente nel cuore degli uomini e da relazione, da parola, da vita diventa idolo, feticcio. Si può morire per amore e Dio ha scelto di scendere nella morte perché l’amore non morisse. Come in una figura-sfondo in cui un gioco di illusione ottica consente all’osservatore di vedere ora un’immagine, ora un’altra, qui, nel Cristo-croce, la duplice possibilità di lettura non deriva dal decidere se il soggetto principale sia il fondo o la figura, ma dal decidere se il Cristo sia simbolo di condanna, per sempre inchiodato sul quel legno, o sia come proiettato fuori, risorto, icona di riscatto. Non è questione di illusione ottica e tanto meno di un’illusione del cuore: è un salto della ragione che consente all’uomo di fede di non avere dubbi. Il Cristo-croce di Battista Marello non è tutt’uno con quel legno, viene fuori, come Lazzaro dalla tomba, e lascia dietro di sé solo l’impronta di un passato di dolore. Stoltezza per gli ebrei, scandalo per i pagani, il Cristo-croce, che sembra venir fuori dal legno, nell’opera di Marello e nell’animo dell’uomo, del sacerdote, dell’artista diviene speranza certa di salvezza. |