|
di
Gaetano Andrisani
Riempire
la solitudine di San Leucio, esaltata dalle dimensioni ragguardevoli del
complesso architettonico della prospettiva paesaggistica del posto,
dev’essere un problema per chi non è aduso alla contemplazione e si
ritrova nei panni di un attivo itinerante. Meno male che ci sono i pennelli,
i colori e le tele a colmare le malinconie delle lunghe serate d’inverno,
quando fischia e s'infila tra le arcate sfenestrate e la desolazione del
Belvedere che cade a pezzi il vento del Tifata.
Battista
Marello, quindi, dipinge non solo, ma si mostra ora a Sulmona in una
personale che vuole soprattutto avere il significato di un recupero di tutto
il lavoro svolto dai primi tentativi di bozzetti a carboncino o a gessetti e
del riuscito ritratto ad olio del 1969 di “Nufrielle ‘a Palomma”,
pronipote omonimo dell’illustre scultore marcianisano Onofrio Buccini,
alle ultime sperimentazioni informali e al geometrismo della ricerca in
corso, sulla quale sarà impostata forse la prossima rassegna casertana. La
sorpresa che si ha, trovandosi di fronte a tanto lavoro, segmentato di ansie
accavalantisi e di approcci sempre nuovi, attiene soprattutto alla varietà
delle formulazioni provate di un discorso che in fondo è unitario,
agganciato com’è ad una visione religiosa della vita e del mondo e
sostenuto dal grande desiderio di un approdo definitivo, che serva
all’affermazione della propria personalità e alla trasmissione di un
messaggio d’arte. Non
è facile districarsi e fare ordine, sia pure per una personale di recupero,
nell’abbondante materia che si ha sott’occhio; Marello, d'altra parte,
ci pare che nulla abbia distrutto della sua attività e che tutto voglia
utilizzare a testimoniare il fervore di un impegno che si protrae nel tempo
da lunghi anni. In
una congeria così frastagliata di pezzi finiti o abbozzati, rinveniamo un
filo conduttore che riduce all’unità il tutto, compreso quanto
l’artista avrebbe dovuto distruggere, nella metodica da sempre adottata di
scomporre il tema e di conseguenza il suo svolgimento secondo parametri e
moduli geometrici di compenetrazioni il più delle volte di non troppo
agevole trasposizione figurativa. L’osservazione
ci porta a credere che Marello abbia attitudine particolare alle forme della
scultura, dove le spigolosità delle interferenze difficili di solidi e di
piani trova soluzioni accettabili e si radduce a continuità nella terza
dimensione, di certo palpabile e più soffribile di qualsiasi astrazione. Ci
sono già delle sculture nella produzione di Marello, ma pur risentono
dell’autodidattismo della pittura; le forme vanno approfondite in un
impegno diuturno e filtrate da severe riflessioni in lunghe e fredde
sedimentazioni. Non
c’è chi in gioventù non abbia scritto una poesia o una canzone: almeno
si dice. Il luogo comune potrebbe ben estendersi all’arte; difatti, i
pastelli e la plastilina si danno in mano ai bambini per sollecitare la loro
creatività. “In nuve” siamo tutti Michelangelo o Raffaello; approda ad
esiti felici in materia che ha talento e questo non sotterra ma coltiva e fa
fruttificare. Marello ne ha, come dimostra quanto si espone nella personale
di Sulmona; lo mette già a frutto, ma ne coglierà di più quando avrà
scelto la sua strada e la percorrerà difilato, senza zig-zagare o tornare
indietro o cercarne ancora, fino alla meta. Di
pellegrini più o meno affannosi alla ricerca dei valori assoluti che sono
nell’arte, che è la verità, è coperto il mondo. Giunge in fondo chi
lascia pure il bastone e la bisaccia e disincantato tiene sempre lo sguardo
fisso alla vetta. Battista
Marello dimostra per ora di avere i numeri per farcela.
di
Antonio Marotta
Le
forme più esasperate del rocaille, un gusto Pompadour gonfiato al punto da
richiamare l’attenzione sul senso concreto della contemporaneità della
storia, uno stile di vita basato sull’intelligenza nei suoi aspetti più
scettici e pungenti, un compiacimento estetico, talvolta fine a se stesso:
queste cose ed altre affiorano dai disegni di Battista Marello, i primi,
quelli degli anni ’70, eseguite nelle sale di quell’immobile ossessione
che è il Belvedere di S. Leucio ove ogni cosa sfiora il gusto e la memoria
e contribuisce all’intrigo di emozioni. Trofei,
delfini, vasi che ricordano le produzioni di Sevres ma che si presentano
nella lettura di Marello come turiboli ove brucia l’incenso: cose che
collocano talvolta l’artista al di dentro della configurazione tardo
barocca; cose che difficilmente potranno sopravvivere al di fuori di questo
sogno patriarcale dell’Arcadia illuminata ove si vive un passato e un
presente assai simili e ove nei disegni o nelle tele è già presente il
dolore di sentirsi durare. S.
Leucio vive lunghe aspettazioni di bellezze; è una realtà vitrea, non
conoscibile in cui anche i sentimenti compongono su un telaio immaginario
damaschi iridiscenti. Liberarsi
di queste cose, fuggire l’ossessione si traduce in un tentativo che rimarrà
comunque ricchissimo di memorie, di fili di culture ricchissime tesi nei
secoli per comporre prospettive che comunque rimangono legate alle atmosfere
della settecentesca colonia manifatturiera. Ed è così che tutto sfuma;
tutto si confonde, tutto si accavalla, tutto si ripropone tanto da farti
leggere sui volti e sulle mani dei tre operai che vivono l’ora di sosta,
le speranze di Emmaus, le attese del Risorto, che convivono nell’animo
dell’artista con la lunga, immobile ossessione di questa città che poteva
essere e non è stata. Nelle
ultime opere, in quelle dell’altro ieri o di qualche giorno prima,
Battista Marello attinge ad una cultura diverse forme, gusto ed espressione;
non si comprende però se ciò possa sopravvivere.
|